In Italia le superfici, terrestri e marine, individuate negli ultimi 15 anni come siti contaminati sono davvero rilevanti. I risultati ottenuti fino ad oggi per il raggiungimento della bonifica di queste aree invece, non sono purtroppo altrettanto rilevanti. Secondo il Programma nazionale di bonifica curato dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il totale delle aree perimetrate come siti di interesse nazionale (SIN) è arrivato negli anni a circa 180mila ettari di superficie, scesi oggi a 100mila ettari, solo grazie alla derubricazione dello scorso anno di 18 siti da nazionali a regionali (i SIN sono quindi passati da 57 a 39).
Solo in 11 SIN è stato presentato il 100% dei piani di caratterizzazione previsti (è il primo step del processo di risanamento che definisce il tipo e la diffusione dell’inquinamento presente e che porta alla successiva progettazione degli interventi). Anche sui progetti di bonifica presentati e approvati emerge un forte ritardo: solo in 3 SIN è stato approvato il 100% dei progetti di bonifica previsti. In totale, sono solo 254 i progetti di bonifica di suoli o falde con decreto di approvazione, su migliaia di elaborati presentati.
Le bonifiche vanno a rilento, ma non il giro d’affari del risanamento ambientale che si aggirerebbe intorno ai 30 miliardi di euro. Dal 2001 al 2012 sono stati messi in campo 3,6 miliardi di euro di investimenti, tra soldi pubblici (1,9 miliardi di euro, pari al 52,5% del totale) e progetti approvati di iniziativa privata (1,7 miliardi di euro, pari al 47,5% del totale), con risultati concreti davvero inesistenti.
Il dossier Le bonifiche in Italia: chimera o realtà? è stato presentato oggi a Roma nel corso di un convegno che ha visto la partecipazione di Vittorio Cogliati Dezza (presidente di Legambiente), Andrea Orlando (ministro dell’Ambiente e tutela del territorio e del mare), Ermete Realacci (presidente Commissione ambiente Camera dei deputati), Alessandro Gilotti (presidente Unione Petrolifera), Daniele Ferrari (vice presidente Federchimica e amministratore delegato di Versalis), Catia Bastioli (presidente del Kyoto Club e amministratore delegato di Novamont), Pietro Comba (responsabile del dipartimento epidemiologia ambientale dell’Istituto superiore di Sanità), Fabrizio Bianchi (Unità di Epidemiologia ambientale dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa), Giovanni Romano (assessore all’ambiente Regione Campania), Michele Buonomo (presidente Legambiente Campania) e Mariella Maffini (coordinatrice Rete dei Comuni Siti di Interesse Nazionale).
In questo scenario di grandi ritardi nelle attività di bonifica, un ruolo non marginale lo hanno avuto anche una parte dei soggetti responsabili dell’inquinamento. Sono numerose le storie di melina – per usare una metafora calcistica – operata dalle aziende sulle operazioni di bonifica. Un esempio è quello dell’Ilva di Taranto o della Stoppani di Cogoleto (Ge), un’azienda chimica che per decenni ha inquinato di cromo esavalente il torrente Lerone e un tratto di costa del Mar Ligure. Lo stesso vizio viene praticato anche da aziende pubbliche o a prevalente capitale pubblico, come nel caso della Syndial nella bonifica di Crotone.
La forte concentrazione di inquinanti nell’ambiente e i ritardi negli interventi di bonifica causano anche evidenti danni alla salute. Il progetto Sentieri, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, conclusosi nel 2011 e in corso di aggiornamento, ha realizzato il profilo sanitario delle popolazioni residenti in 44 SIN: si va dall’eccesso di tumori della pleura nei SIN con l’amianto (Balangero, Casale Monferrato, Broni, Bari-Fibronit e Biancavilla) o dove l’amianto è uno degli inquinanti presenti (Pitelli, Massa Carrara, Priolo e Litorale Vesuviano), agli incrementi di mortalità per tumore o per malattie legate all’apparato respiratorio per le emissioni degli impianti petroliferi, petrolchimici, siderurgici e metallurgici (Gela, Porto Torres, Taranto e nel Sulcis in Sardegna). Sono stati evidenziate malformazioni congenite (Massa Carrara, Falconara, Milazzo e Porto Torres) e patologie del sistema urinario per l’esposizione a metalli pesanti e composti alogenati (Piombino, Massa Cararra, Orbetello, nel basso bacino del fiume Chienti e nel Sulcis). Emergono anche gli eccessi di malattie neurologiche da esposizione a metalli pesanti e solventi organo alogenati (Trento nord, Grado e Marano e nel basso bacino del fiume Chienti), ma anche dei linfomi non Hodgkin da contaminazione da PCB (Brescia).
A proposito di territori dove l’inquinamento è diffuso e le bonifiche non sono mai partite, una menzione a parte la merita la Campania, con la sua Terra dei fuochi, parte del sito inquinato più vasto denominato Litorale domitio flegreo e Agro aversano. Quest’ultimo fu uno dei primi 15 SIN inseriti nel programma nazionale di bonifica nel 1998 ma un anno fa, in modo del tutto incomprensibile, è stato trasformato in SIR, sito di interesse regionale, con un decreto del Ministero dell’ambiente che lo ha declassificato con il benestare della Regione Campania. Contro questo decreto Legambiente ha presentato ricorso al Tar del Lazio e ora attendiamo l’atto normativo annunciato nei giorni scorsi dal ministro Orlando per farlo tornare ad essere SIN.
Dal dossier emerge chiaramente anche il rischio di illegalità e di infiltrazione ecomafiosa nel settore e non solo nelle regioni del sud Italia. Il coinvolgimento del centro-nord come luogo di smaltimento illegale dei rifiuti speciali e pericolosi emerge da molti anni nello scacchiere dei traffici illeciti lo stesso vale anche per le bonifiche, come dimostra anche la recentissima indagine su Pioltello (Mi), che ha portato all’arresto di due dirigenti di Sogesid e di altre quattro persone tra cui l’ex capo della segreteria tecnica dell’ex ministro Prestigiacomo, Luigi Pelaggi.
In base alle elaborazione di Legambiente dal 2002 ad oggi sono state 19 le indagini su smaltimenti illegali di rifiuti derivanti dalla bonifica di siti inquinati (pari all’8,5% del totale delle indagini concluse contro i trafficanti di rifiuti), sono state emesse 150 ordinanze di custodia cautelare, sono state denunciate 550 persone e coinvolte 105 aziende. Queste indagini sono state concluse da 17 Procure della Repubblica di diverse parti d’Italia (Alessandria, Bari, Bologna, Brescia, Busto Arsizio (Va), Chieti, Grosseto, Massa, Milano, Rieti, Siena, Trapani, Udine, Velletri, Venezia, Verbania e Viterbo).