Terre rare, di cosa stiamo parlando?

Terre rare, di cosa stiamo parlando?

Capita spesso – soprattutto dopo l’azione legale intrapresa da USA, Europa e Giappone contro la Cina – di sentire parlare di accessibilità alle risorse, terre rare e materie prime. Già lo scorso anno, in realtà, Consorzio ReMedia aveva voluto lanciare un segnale forte durante il convegno Hi Tech Ambiente che si era concluso con il Manifesto del riciclo dei RAEE, simbolo dell’impegno e della volontà di puntare sull’industria del riciclaggio, valorizzandola, incrementando i risultati e sostenendo l’introduzione di progetti innovativi.

E nel 2012? Come è la situazione? Attualmente ciascun cittadino europeo produce circa 17kg di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche all’anno, una cifra che secondo le stime dovrebbe salire a 24 kg entro il 2020. Sempre entro il 2020, la Commissione Europea propone di raggiungere alcuni obiettivi concreti, fra i quali incentivare il riciclo dei prodotti finiti e la sostituzione dei materiali critici con altre sostanze meno soggette a rischi geopolitici e di scarsità in natura. Per farlo è necessario agire sin da subito e mantenere alta l’attenzione su una sfida più che mai attuale.

Per questo motivo ReMedia, insieme al Politecnico di Milano ed ad altri importanti partner istituzionali, ha costituito un laboratorio di ricerca che ha il compito di fare il punto sulla situazione e di dare un assetto industriale e competitivo a un settore così strategico. I primi risultati di E-Waste Lab 2.0 verranno presentati il prossimo 8 giugno durante il convegno annuale di ReMedia per dare ancora più importanza ai fatti e confrontarsi con esponenti di alto livello dell’industria e delle istituzioni.

Ma cosa sono, esattamente, le Terre Rare? Secondo la definizione della IUPAC, le terre rare (in inglese “rare earth elements” o “rare earth metals”) sono un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica. Si chiamano rare, ma poi così scarse in natura proprio non sono. Certo, si trovano in concentrazioni molto ridotte ma nel sottosuolo sono piuttosto diffuse. Vi si trovano mediamente 40 grammi di ittrio per tonnellata di materia contro i soli 15 grammi di Piombo. Il mercato mondiale delle terre rare vale 4 miliardi di dollari ma questo non dà l’idea della loro importanza economica. Per capirne l’impatto bisogna considerare che la disponibilità di terre rare abilita la produzione di beni per un valore di 4 trilioni di dollari.

Proprio il Giappone, una delle più importanti potenze industriali mondiali, sta facendo di tutto per ridurre la propria dipendenza dalla Cina nella fornitura di terre rare. Il Paese del Sol Levante ha recentemente investito 150 milioni di dollari per ridurre i propri fabbisogni di una percentuale che va dal 30 all’80 per cento di Disprosio, di Indio, di Terbio e di Europio grazie all’impiego di sostanze alternative ed ha stanziato 2 miliardi di dollari per assicurarsi l’approvvigionamento delle risorse minerarie critiche realizzando strutture per l’esplorazione dei fondali oceanici.

Un crudele paradosso sta contrassegnando la trasformazione in atto nell’industria e nella società occidentale. Se da un lato, infatti, stiamo investendo per ridurre la nostra dipendenza dalle fonti fossili, trasformandoci in una economia a basso tenore di carbonio e puntando a ridimensionare l’oligopolio Russo – Mediorientale del petrolio e del gas naturale. Dall’altro però ci stiamo infilando nel monopolio cinese delle risorse minerarie. Installiamo migliaia di turbine eoliche ma per fabbricarle servono magneti speciali molto sofisticati realizzati con Neodimio Ferro Boro (NdFeB).

In Europa non abbiamo mai cercato il Neodimio e per poterne disporre siamo totalmente dipendenti dalla Cina che però a sua volta sta investendo pesantemente nell’energia eolica e ha deciso di tenere per sé la preziosa materia prima. Su questo fronte i piani di sviluppo cinesi sono impressionanti.

Nel 2020 la Cina potrebbe superare i 150.000 megawatt di potenza installata e, considerando che 10 megawatt richiedono 6 tonnellate di magneti speciali, il suo fabbisogno di neodimio tra meno di 10 anni potrebbe superare le 24.000 tonnellate. Ma come siamo arrivati a questo punto? L’Europa non si è accorta dei rischi che sta correndo? Sembra di no. Il Vecchio Continente dipende in modo eccessivo dalle importazioni di metalli e minerali dall’estero e dalla Cina in particolare. Il 100% dell’antimonio che utilizziamo in Europa è importato da Argentina, Cina, Pakistan e Vietnam, così come il Cobalto (Repubblica Popolare del Congo, Cina) e tutte le terre Rare (Cina). Il 95% della grafite arriva da Cina e Argentina mentre importiamo il 75% della fluorite da Cina e Vietnam. Solo oggi, negli anni ’10 del terzo millennio, l’Europa si accorge di aver sottovalutato il problema, di aver commesso un errore strategico.

Fino a poco tempo fa le grida d’allarme delle nostre imprese sono cadute nel vuoto. Volendo essere ottimisti si può dire “meglio tardi che mai” perché finalmente iniziano ad arrivare le prime contromisure. Per tentare di recuperare il terreno perduto nel 2010 la Commissione Europea per l’Industria dell’italiano Antonio Tajani ha avviato un piano organico per rendere l’Europa meno dipendente dalle criticità e dai rischi dei mercati internazionali. La Commissione ha inizialmente identificato un elenco 14 materie prime definite “critiche” che verrà aggiornato almeno ogni tre anni. Diverse materie prime presenti nell’elenco della Commissione Europea sono essenziali per le nostre industrie, come l’antimonio, il berillio, il cobalto, il gallio, il germanio, l’indio, il neodimio, il tungsteno e la grafite.

È proprio per questi motivi che non possiamo sprecarle!

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